Nel mezzo del cammin dei miei studi universitari incominciai ad essere affascinato dalle opere di Ludwig Mies van der Rohe, le quali destavano il mio interesse per la semplicità della costruzione e per il perfezionamento del dettaglio. Ciò che mi incuriosiva di più era il fatto che Mies non costruisce mai un manufatto fine a se stesso, il suo progetto e la sua tecnica scaturiscono dall’essenza e dalla finalità dell’edificio. Egli concepisce l’opera che sta progettando come un’unità logica e non come una sequenza casuale di spazi.
Fondamentale è stata l’influenza di questo Maestro nel farmi appassionare all’architettura, quel suo paradigma della “chiarezza” costruttiva come fondamento dell’architettura e quella convinzione che la forma non è il punto da cui partire ma solo il risultato finale del processo progettuale, mi si cucivano addosso come un abito sartoriale.
Lo sforzo di Mies di adeguarsi alle esigenze tecniche lo porta a limitarsi alla combinazione di pochi materiali, ad utilizzarli in maniera economica e conforme alla loro destinazione ed a far sprigionare la loro bellezza mediante un uso ragionato.
Ritengo estremamente attuale la lezione del Mies maturo, per la quale egli stesso afferma che “La finalità dell’edificio cambia costantemente, ma non possiamo permetterci di demolirlo. Per questo capovolgiamo lo slogan di Sullivan ‘la forma segue la funzione’ e costruiamo uno spazio pratico ed economico in cui è possibile adeguare la funzione”. In un contesto, come quello odierno, in cui il recupero e la rifunzionalizzazione degli spazi edificati è sempre più prevalente rispetto alla costruzione di nuovi edifici, il mio lavoro progettuale, frutto di questo imprinting giovanile, cerca faticosamente di perseguire questi propositi.